Quando gli italiani migravano in Svizzera
∙ di Nino Lentini ∙
l problema della migrazione dei popoli da una nazione ad un altra è qualcosa di atavico, non è nato oggi, non morirà domani. Esisterà finchè l’essere umano popolerà il mondo. Naturalmente più avanti si va e più le cose cambieranno in meglio, per il rispetto delle persone e dei popoli. Oggi assistiamo, purtroppo, all’esodo di migliaia di persone che scappano dalla fame, dalla miseria e dalle guerre, avventurandosi nei mari, dove, purtroppo molti perdono la vita, ma chi riesce ad arrivare in un qualsiasi paese civilizzato, trova la giusta accoglienza e rispetto. Assistiamo, specialmente nel periodo estivo, quasi giornalmente a sbarchi di centinaia di persone, provenienti dalla Libia a da altri paesi limitrofi, presso le nostre coste. Con tutte le difficoltà del caso, alla fine si trova sempre una sistemazione civile ed umana. Ci troviamo, infatti, di fronte a persone, che, nella maggior parte dei casi, è scappata per disperazione dal proprio paese, che generalmente versa in stato di povertà, miseria, fame e guerra. Va senza meta, nelle mani di Dio finchè una spiaggia di un popolo civile non li accoglie, anche con non poche difficoltà. Alla fine però saranno curati, accuditi e rispettati. La stessa cosa non succedeva qualche anno addietro, anni non molto lontani, parliamo degli anni 60 e 70, quando a sbarcare in altri paesi, vedi Svizzera, erano gli italiani. Da wikipedia “Quando i migranti eravamo noi vivevamo nelle baracche. Luciano Alban, arrivato da Montebelluna nel 1968, se le ricorda bene: «Baracche come ne ho viste poi solo a Dachau. Ci stavano gli stagionali, quelli che potevano restare solo nove mesi e non avevano il permesso di affittare una casa. E anche gli operai in difficoltà, quelli che invece nelle campagne stavano dai contadini». Baracche coi letti a castello, un cesso per cinquanta persone, il lavatoio in comune, fornelletti per cucinare, fili stesi per i panni. Ai margini delle città, vicino ai cantieri, lontano dai quartieri borghesi. Quando i migranti eravamo noi, c’era qualcuno che voleva cacciarci via, perché “prima gli svizzeri”. Ci fu un referendum nel 1970, lanciato da James Schwarzenbach, strana figura di intellettuale-scrittore-editore”. Sempre da wikipedia “Schwarzenbach: il suo del 1970 fu il primo referendum europeo per dare una stretta all’immigrazione. Se avesse vinto, in 300 mila italiani avrebbero dovuto fare le valigie. Luciano Alban oggi ricorda che dove lavorava lui, azienda che costruiva centrali idroelettriche, glielo dicevano in faccia: «Se passa, te ne vai», anche se i capi erano tutti per votare no. Perse per soli 100 mila voti, il 46 per cento contro il 54. Non che la xenofobia fosse una novità, in Svizzera. «Nel 1896» racconta Franco Narducci, presidente del Corriere degli Italiani, «ci fu qui a Zurigo un pogrom(sommossa) contro gli italiani, scatenato da un pretesto. Bastonature per strada, negozi bruciati. Chiuso il cantiere del Gottardo erano arrivati gli operai italiani, accusati di lavorare sotto costo, di rubare il lavoro agli svizzeri». E nemmeno è tramontata la xenofobia, dopo la sconfitta del 1970. Altri referendum ci sono stati, tutti persi. Altre forze politiche hanno urlato “Prima gli svizzeri”. In quegli anni Sessanta c’erano bambini nascosti, illegali, tappati in casa senza poter fare rumore né guardare dalla finestra, per paura che un vicino facesse la spia e venissero cacciati. Che cosa succedeva soprattutto negli anni Sessanta e Settanta? Lo statuto del lavoratore stagionale (definitivamente abolito nel 2002) permetteva di rimanere in Svizzera 9 mesi all’anno e non consentiva di cambiare domicilio o lavoro. Per molto tempo inoltre non ha previsto che un emigrante o una coppia di emigranti (marito e moglie) potessero ospitare i propri figli. Per questa ragione molti bambini figli di stagionali hanno dovuto vivere in clandestinità, nascosti nelle abitazioni dei genitori. Anche se definirle “case” è un eufemismo: stavano nascosti in baracche, scantinati, abbaini e soffitte; non potevano urlare o ridere o piangere o giocare all’aperto, perché c’era il pericolo che fossero individuati e denunciati; quando si ammalavano, era rischioso farli visitare da un medico. Una volta scoperti, dovevano andarsene, così spesso raggiungevano altri bimbi negli orfanotrofi lungo il confine italo-svizzero. Oggi, fortunatamente la situazione è cambiata, in meglio naturalmente. Ma ci sono voluti molti decenni, con sacrifici enormi anche di vite umane proprio per il modo in cui erano trattati i migranti italiani. Tanta acqua sotto i ponti e tanta storia, scritta spesso con il sangue ha permesso di essere diversi e di far capire che gli italiani in fondo era brava gente. Oggi la migrazione che gli italiani subiscono, spesso riviene da fattori che nulla hanno a che vedere con il lavoro o con l’accoglienza. Spesso si tratta di commercio di esseri umani. Certo nulla da dire a quelle persone che attraversano il mare in un barcone e dove spesso trovano la morte. Bisognerebbe, però che le forze politiche una volta per tutte facessero sul serio a mettere alla gogna questi banditi che commerciano esseri umani e risolvere cosi, in modo civile, una situazione che non sta bene ne a loro, chi è costretto a scappare, ne ai popoli che li ospitano senza meta ne futuro. Il diritto di ogni essere umano è quello di poter vivere con dignità ed onore nella propria terra o altrove. La scelta però non deve essere di nessuno se non di se stessi. Vivere ovunque con la stessa dignità per ciascun uomo, bianco, nero, giallo, ecc. in L I B E R T A’.
La libertà deve e dovrà essere il denominatore comune per tutti i popoli del mondo, anzi, scusate, dell’universo. Viva la libertà!