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Lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Lavorare per vivere o vivere per lavorare

Economia e Stato al servizio di chi sceglie la vita: uno sviluppo possibile

di Brunella Trifilio

Il comportamento umano non è influenzato esclusivamente dall’interesse economico, ma da un bisogno di socialità indirettamente riconducibile all’economia nella misura in cui le condizioni di benessere create dalle aziende – per i loro lavoratori – e dallo Stato – per i cittadini – siano in grado di stimolare la crescita generale. Se questa premessa è vera (lavoriamo bene quando viviamo bene), si può tranquillamente affermare che includere l’uomo nel suo ambiente – come lavoratore e come cittadino – equivale a supportarne la massima produttività senza stress psicofisici e malesseri sociali. Una tale prospettiva di crescita – costruita sulla pace sociale e con l’uomo al centro dell’agire pubblico e privato – mette in discussione il consueto modo di concepire lo sviluppo, ancorandone i suoi presupposti a una fitta rete di rapporti di collaborazione tra governanti, imprenditori, cittadini, lavoratori, scuole, università.

Questo è il senso del “fare sistema”. Un approccio al cambiamento costruito sull’inclusione di ognuno nel proprio ambiente (impresa e società) non si ferma al semplice obiettivo di crescere insieme, ma mette in gioco vantaggiosi processi imitativi come ovvia conseguenza dei buoni risultati raggiunti. Il circolo virtuoso dell’innovazione responsabile passa così dallo “stare bene” dei singoli alla maggiore ricchezza per tutti. Per contro, l’agire pubblico e privato che domina sull’uomo, ignorandone i suoi bisogni, distrugge potenzialità produttive e risorse come conseguenza di un malessere generale che è causa ed effetto della regressione economica e sociale.

In attesa di una svolta culturale che possa favorire lo sviluppo pianificato sul valore della persona e del suo ambiente, ci si chiede come si potrebbe agire, sin da subito, in mancanza di un più ampio coordinamento tra i soggetti in gioco. La risposta più facile è che ognuno possa fare la sua parte indipendentemente dall’agire degli altri, anche se ciò non basta. Singoli comportamenti inclusivi e sostenibili, pur non risolvendo il problema alla radice, possono rimuovere alcune ataviche incrostazioni culturali che frenano il progresso. Le aziende già in pista sulla via della sostenibilità si organizzano in armonia con i lavoratori, ricercando il miglior equilibrio possibile tra le ragioni della redditività e i bisogni del personale (giusta retribuzione, motivazione, serenità ambientale, partecipazione, welfare, crescita professionale, conciliazione vita/lavoro).

Le imprese capaci di favorire condizioni ambientali ideali per il lavoro e per la fidelizzazione dei propri dipendenti migliorano anche la loro redditività (riduzione dei costi per assenteismo o non ottimale gestione della clientela e incremento dei ricavi legati alla maggiore produttività favorita dal clima sereno o dalla motivazione). L’organizzazione delle aziende inclusive dimostra in concreto come sia facile e opportuno creare contesti lavorativi motivanti senza aumentare i costi generali. Quanto alle politiche di sostegno pubblico, è fondamentale l’attenzione ai bisogni del cittadino insieme a quelli delle imprese. Il solo sostegno alle aziende diventa insufficiente quando non tutti gli imprenditori (destinatari di risorse pubbliche) possiedono buone capacità di condurre in porto nuovi investimenti e di creare ulteriori occasioni di lavoro. Il sostegno ai singoli cittadini rafforza invece la domanda di beni e servizi, creando nuove opportunità di produzione e crescita. Il cambiamento auspicabile nella direzione della sostenibilità richiede rapporti sereni e costruttivi di tutte le forze chiamate a partecipare allo sviluppo: aziende, in relazione ai dipendenti e ai loro rappresentanti sindacali e nella competizione con i loro concorrenti; Stato e Pubblica amministrazione nei confronti del cittadino e del sistema produttivo.

Quando tali rapporti sono asincroni e scarsamente inclusivi, se ne avvertono le inevitabili conseguenze negative. In ambito aziendale, la scarsa attenzione alla sostenibilità incontra i suoi effetti avversi nel mobbing; nello stress psicofisico; nell’ insufficiente attenzione alle diversità o alle esigenze di conciliazione vita/lavoro; nell’iniquità distributiva della ricchezza prodotta dai dipendenti; nell’inadeguata valutazione delle potenzialità del personale; nell’eccessiva concentrazione sui risultati economici di breve periodo a scapito della solidità aziendale del medio/lungo periodo. La scarsa attenzione alla sostenibilità in termini di politiche sociali pubbliche (famiglia, assistenza sanitaria e sociale, istruzione, lavoro, genitorialità, disabilità) ha ulteriori ripercussioni negative sulla crescita economica (spreco delle potenzialità di consumo per carenza di supporto ai cittadini più fragili e sperpero delle intelligenze).

Cambiare passo attraverso l’agire coordinato di tutti (Stato, scuola, economia, cittadini, lavoratori, sindacati) facendo “sistema”, equivale a promuovere un virtuosismo comportamentale capace di autoalimentarsi nel tempo e di amplificarsi nello spazio per l’effetto imitativo che ne può derivare. La forza economica e sociale dell’azienda attenta ai suoi dipendenti, unita a quella di tutte le imprese socialmente responsabili del sistema produttivo, con l’aggiunta della spinta inclusiva dello Stato, è la chiave di volta per una crescita generale che non chieda come contropartita la disuguaglianza sociale e il malessere delle persone. La sfida futura della politica e delle aziende dovrà ritrovare il suo punto di partenza proprio nella diffidenza verso le grandi potenzialità di ogni persona soddisfatta del proprio lavoro e del Paese in cui vive. Isolate esperienze di cambiamento, con i loro episodici effetti positivi, non sono sufficienti a dimostrare pienamente quanto sia utile coordinarsi ed agire insieme per il benessere dell’uomo e per mantenere viva la pace sociale.

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