di Mario Caspani ∙
“Nel lungo periodo saremo tutti morti”. La battuta fu pronunciata da John Maynard Keynes (1883-1946) e, se decontestualizzata, potrebbe sembrare uno sfogo al limite della depressione, mentre in realtà aveva un senso completamente diverso.
Keynes, forse il più influente economista del secolo scorso, teorizzava la necessità di un intervento statale nell’economia, con strumenti monetari e politiche di bilancio espansive, in caso di insufficienza della domanda aggregata nei periodi di crisi economica e occupazionale. Ciò in antitesi con le teorie classiche dell’economia e, in particolare, con i principi liberisti delle “scuole” americane e austriache (Milton Friedman, Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises).
Queste ultime, detto in soldoni, propendevano per uno stato che se ne stesse il più possibile fuori, ritenendo che in ogni caso in un sistema capitalistico avanzato i meccanismi di autoregolamentazione del mercato sarebbero bastati a sanare gli squilibri e le eventuali crisi… ma quando? Di sicuro se non subito almeno nel “lungo periodo”. Da qui la beffarda risposta di Keynes.
La battuta mi è tornata in mente qualche giorno fa leggendo la notizia che la Banca Popolare di Sondrio – l’ultimo “mohicano” cooperativo tra le grandi banche popolari interessate dalla riforma voluta dal governo Renzi nell’ormai lontano 2015 – preso atto che anche il Consiglio di Stato a maggio scorso aveva definitivamente sancito la legittimità della riforma, ha convocato e celebrato la necessaria assemblea straordinaria per deliberare il passaggio da società cooperativa a società per azioni.
Molti sono stati gli ostacoli nel cammino della riforma, a partire dal modo in cui fu deliberata ricorrendo a un decreto legge, poi convertito in legge, una forma che contrastava con la mancanza di urgenza nel procedere e ha alimentato dubbi (anche nelle Procure e negli organi di controllo) in ordine a movimenti sospetti sui titoli azionari delle banche coinvolte Secondo l’allora presidente Consob Giuseppe Vegas, si generarono profitti per oltre 10 milioni di euro di cui beneficiarono i soliti “bene informati” che giocarono di anticipo accaparrandosi titoli che in pochi giorni si rivalutarono enormemente.
Emblematico il caso di Banca Popolare dell’Etruria, il cui titolo rimbalzò del 60% circa solo per la promessa di futura contendibilità dell’azienda. Un’azienda che, nemmeno un mese dopo, venne commissariata da Bankitalia per le gravi irregolarità riscontrate, dopo di che sappiamo tutti come andò a finire.
Già, e per le altre banche coinvolte come è andata a finire?
Facciamo un passo indietro. La riforma prevedeva l’obbligatorietà dal passaggio alla forma di s.p.a. entro 18 mesi per le banche popolari cooperative che alla data registravano un totale degli attivi superiore agli 8 miliardi di euro.
Il premier Renzi, allora al vertice della sua parabola di potere, come sempre pieno di sicumera, dichiarò “costringeremo (sic!) le banche popolari più grandi a trasformarsi in spa in un arco limitato di tempo”. Tale arco, invece, si è dilatato fino a quasi sette anni, tra corsi e ricorsi e controricorsi.
Delle 10 banche allora coinvolte alcune sono “saltate” nel giro di pochi mesi: la già citata Etruria, le venete Popolare Vicenza e Veneto Banca, tutte sull’orlo del fallimento, vennero acquisite da UBI e da Intesa Sanpaolo. Pochi anni dopo ISP fece un solo boccone di UBI, riservandone una parte a Banca Popolare Emilia Romagna.
Banca Popolare di Bari (“fuori mercato da 10 anni”, dichiarazione del suo ultimo AD dimissionario) è di fatto stata commissariata ed è passata sotto il controllo di Medio Credito Centrale. Credito Valtellinese è stata acquisito dai francesi di Crédit Agricole.
Restano in attività Banca Popolare di Milano e Banco Popolare, che si sono fuse in Banco BPM, e Banca Popolare dell’Emilia Romagna che, dopo aver acquisito un terzo circa della ex rete sportelli UBI, si appresta ora ad acquistare anche Banco di Chiavari e allunga la sua ombra anche sull’ultima popolare pura a trasformarsi in spa, cioè la Popolare di Sondrio da cui siamo partiti.
Il mercato ha fatto il suo corso, si dirà, certo è che dei dieci soggetti attivi all’epoca della riforma, sul campo ne sono rimasti ad oggi due apparentemente in buona salute, uno in salute ma pronto per essere accalappiato dalla prima opa utile (ostile o no) e uno in quel di Bari con più di un problema ancora da risolvere.
L’ “arco limitato di tempo” preconizzato da Renzi si è nel frattempo trasformato in un medio/lungo termine, e ora tende al lungo. E il lungo termine, come diceva Keynes, non porta decisamente bene.