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Non è (ancora…) un paese per donne

Giulio Bruno ∙

Non è un paese per vecchi. Il celebre e pluripremiato film dei fratelli Coen del 2007 puntava i riflettori sulle contraddizioni che scuotevano l’America agli inizi degli anni ‘80, sul paradigma di profonda mutazione culturale e antropologica che si affermava nella società statunitense in quel cambiamento di fase economica, ancor di più sui primi vagiti di conflitto generazionale che la agitavano nelle fondamenta. Il titolo di quella magnifica pellicola, tratta dal romanzo di Cormac McCarthy e vincitrice di ben 4 premi Oscar oltre che di un’infinità di altri importanti riconoscimenti, è stato fonte di ispirazione per descrivere e rappresentare in più di una circostanza, nell’accezione politica e sociale alla quale ben si presta, le contraddizioni che sono andate sviluppandosi nel nostro Paese. L’Italia, negli ultimi 30 anni, non è stato un paese per vecchi, considerando il livello indegno delle pensioni, soprattutto quelle minime, frutto delle indecenti riforme previdenziali che si sono susseguite nel tempo. Purtroppo, l’Italia non è solo un paese ostile ai vecchi, per usare il linguaggio ruvido ma efficace dei fratelli Coen. Il nostro non è neppure un paese per giovani, visto il fenomeno crescente dell’emigrazione intellettuale dei nostri ragazzi all’estero, i cosiddetti cervelli in fuga, come non lo è neppure per quelli che rimangono, vittima dello sfruttamento, della precarietà, della disoccupazione strutturale di massa soprattutto al Meridione. E siccome in quanto italiani siamo bravissimi a non farci mancare nulla, possiamo affermare senza timore di essere smentiti che l’Italia non è sicuramente un paese per donne. E non mi riferisco solo al ripugnante fenomeno dei femminicidi, reato dilagante a ogni latitudine senza distinzione di classi sociali e di età, ma alle condizioni medioevali in cui l’universo femminile è costretto a destreggiarsi sui luoghi di lavoro.

L’Italia non è un paese per donne. In tutte le professioni, le discriminazioni rappresentano quasi una normalità, una prassi per la quale l’ordinario evolversi delle marcate differenze di trattamento sembra quasi essere accettato come conseguenza naturale della differenza di genere. Le evidenti disparità salariali con l’altro sesso, le differenti opportunità di carriera rispetto agli uomini, i ruoli di minore responsabilità ricoperti all’interno delle varie imprese rivelano un preciso disegno maschilista frutto di una visione patriarcale e anacronistica della società. La donna ancora oggi, nel mondo del lavoro, risulta concettualmente subalterna nell’idea distorta che le viene cucita addosso. La donna vista esclusivamente come moglie, madre e angelo del focolare, e pertanto relegata nell’ambito professionale a ricoprire ruoli e mansioni meno gratificanti. Salari più bassi, carriere bloccate, gravidanze considerate ostacoli per chi intravede nella produttività e nel profitto gli unici traguardi da raggiungere. Quelle stesse donne, peraltro, vittime di ricatti sul posto di lavoro, di mobbing, di stalking, di molestie di ogni genere e di pressioni contro ogni civile concetto di competenza e in spregio alle più elementari forme di applicazione del principio della meritocrazia. Le donne considerate poco performanti, umiliate psicologicamente e ritenute non all’altezza di esercitare compiti, ricoprire ruoli e funzioni, assumere responsabilità di pari e superiore livello rispetto agli uomini. Si pensi alle operaie, alle impiegate, alle professioniste e anche a chi, solo apparentemente, può ritenersi soddisfatta del ruolo che è riuscita a ritagliarsi. Diciamo apparentemente perché dietro ogni traguardo raggiunto da una donna in ambito lavorativo, dietro ogni risultato più o meno gratificante c’è sempre una storia di sofferenza, di rinunce, di sacrifici, di bocconi amari mandati giù a fatica, di sudore, di lacrime, di lotta, di battaglie, di pugni stretti, di dignità a volte calpestata, di tenacia. Una quantità di ostacoli innumerevolmente più elevata di quella riservata agli uomini.

Nel sud, nel nostro sud e nella nostra martoriata Calabria, questi fenomeni risultano ancora più amplificati dal contesto di frontiera nel quale ci troviamo a vivere. Storie di degrado, di sfruttamento, di delegittimazione, di demansionamento, di vera e propria ostilità da parte di molti datori di lavoro, di accanimento finalizzato a minare certezze, offendere capacità, mortificare competenze e mettere a nudo fragilità e debolezze. La pervicace ostinazione nel voler sottomettere e annientare chi reagisce, chi si oppone a questo modo di fare, chi si ostina con orgoglio a tenere alta la testa e salvaguardare la propria dignità. La giornata dell’8 marzo è una giornata di riflessione e di dibattito, di confronto e studio, ma anche di lotta per i diritti delle donne lavoratrici e delle loro ambizioni di crescita personale e professionale. L’8 marzo è un appuntamento importante per sottolineare una presenza e una volontà di esserci, di lottare per diritti inalienabili e per esigere trattamenti equi, sia dal punto di vista salariale che contrattuale. La giornata dell’8 marzo serve a ristabilire un equilibrio necessario e giusto, serve a ribadire con forza che l’Italia, il Meridione e la Calabria dovranno diventare un paese per donne. W le lavoratrici, W le donne, stop alla violenza di genere!

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