di Mario Caspani •
C’è da dire che non basta essere illustri letterati, scienziati, studiosi per non incorrere in topiche clamorose. Questo andrebbe ricordato a chi invoca “la scienza” a ogni piè sospinto senza un minimo di contraddittorio. Un esempio storico ce lo dà la storia della famosissima Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, il primo esempio di compendio culturale universale, pubblicato nel ‘700, pietra miliare dell’illuminismo. Nella prima edizione alla voce “Gambero” si leggeva infatti la definizione “pesce di colore rosso che cammina all’indietro”. Bene, tre errori in un colpo solo, ché il gambero è un crostaceo, non un pesce, non è rosso, ma lo diventa dopo la cottura, e non cammina, ma nuota, all’indietro.
Capita. Perché la scienza non è un insieme di definizioni esatte, ma una serie di formulazioni che aspettano solo di essere dimostrate o smentite da ulteriori ricerche. E, soprattutto, il metodo scientifico non è un qualcosa di “democratico” dove vince la maggioranza a dispetto della realtà, ma semplicemente un insieme di postulati che restano validi fino alla prima prova contraria.
Di questo dovrebbe essere a conoscenza chi, come alcuni commentatori, si lancia in una pagina del Corriere in cui lamenta il possibile smantellamento del “green deal” europeo e dove parla di consenso scientifico e unanime secondo cui “i cambiamenti climatici sono rapidi e distruttivi e causati in gran parte dalle attività umane”.
Affermazione senza senso scientifico alcuno. Perché basate sulle conclusioni di “644” scienziati indicati in 111 paesi dall’IPCC (International Panel on Climate Control, comitato ONU costituito con l’obiettivo di fornire ai governi valutazioni scientifiche).
Bene, già stabilire che 644 “scienziati (bisognerebbe pure conoscerne l’identità, ma c’è il fondato dubbio che molti di loro siano di nomina politica o governativa) rappresentino “la scienza” in assoluto è un azzardo mica da ridere.
Ha buon gioco a controbattere Franco Battaglia (già professore di chimica e fisica presso le Università di Modena e Roma Tre), che ad oggi sono ben 2.025 gli scienziati affiliati alla Fondazione Clintel che hanno sottoscritto la “Dichiarazione mondiale sul clima: non c’è alcuna emergenza climatica” (facilmente reperibile in rete), scienziati tra i quali compaiono i nomi di due premi Nobel per la fisica, Ivar Giaever e John Clauser, oltre a climatologi di chiara fama (in Italia per esempio Franco Prodi).
Come sempre, secondo la narrazione ufficiale avallata dai report IPCC, l’imputato numero 1 sarebbe la CO2, molecola invece indispensabile per un corretto equilibrio ambientale, il cui abbattimento sarebbe auspicabile e necessario per la salvaguardia del pianeta. Dimenticandosi che lungi dal produrre il fantomatico effetto serra, la CO2 ha invece contribuito in questi ultimi anni a una maggiore riforestazione ed è comunque alla base della vita stessa del pianeta.
Il fatto che una parte di “scienziati” non la pensi così non è sintomo di verità, anche quando fosse (e non è così), la stragrande maggioranza degli scienziati. Mancano le prove che, ad oggi, si basano solo su modelli di simulazione di scenari futuri basati su dati ampiamente discutibili e discussi dalla comunità scientifica.
Ben sappiamo come e quante variabili influenzino le previsioni meteo e le variazioni climatiche nel brevissimo periodo, figuriamoci nel lungo. In pratica, basta uno 0,001 di differenza nei dati ipotizzati per provocare variazioni epocali in quelli finali.
Ma a parte le considerazioni scientifiche, che lascio a chi voglia approfondirle senza paraocchi ideologici, mi limito a considerare gli effetti delle politiche “green” europee che tanti difendono a spada tratta.
Sento dire che c’è stata una riduzione delle emissioni di CO2 del 28% negli ultimi 20 anni in Europa. Bene (forse) e con questo? Nel resto del mondo (USA, Cina, India ecc.) tali emissioni sono aumentate nello stesso periodo del 60%. L’Europa rappresenta circa il 6% della popolazione globale e contribuisce a poco più del 10% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Anche azzerandole l’effetto globale sarebbe ininfluente.
Ma a che prezzo per l’economia europea?
Basti guardare alla situazione di crisi ormai quasi irreversibile dell’industria automobilistica del vecchio continente, alle prese col diktat dello stop ai motori a combustione dal 2035 e un gap tecnologico impareggiabile con i modelli cinesi e asiatici in generale.
Ciò che non si emetterà più a Francoforte, Parigi o Torino (dove ormai non si emette quasi più nulla), lo si farà a Shanghai o Seoul o Kyoto, e buona cassa integrazione a tutti da noi (in particolare alla miriade di imprese dell’indotto, destinato a sparire di questo passo).
E gli effetti sul clima? Zero assoluto.
Perché di profeti di sventura ne abbiamo sentiti a iosa in questo inizio di secolo, ma le sventure puntualmente si guardano bene dall’accadere. Ricordo Al Gore e John Kerry che nel primo decennio di questo secolo sproloquiavano di azzeramento della calotta polare, innalzamento di decine di metri nel livello dei mari, per non parlare negli anni precedenti di infauste previsioni sui danni delle piogge acide in Europa o, addirittura, a inizio anni 80 del probabile avvento di una nuova era glaciale (si avete letto bene, questo si diceva anche in copertina del Time).
Tutte narrazioni funzionali a imporre tabelle di marcia ideologico-politiche a favore di interessi finanziari che si nascondono dietro nobili propositi ecologisti, con il supporto di compiacenti propagandisti lautamente sovvenzionati.
Diffido delle narrazioni catastrofiche, soprattutto in tema di climatologia e meteorologia, anche perché ho sempre presente un vecchio proverbio brianzolo che mi ha tramandato mio nonno paterno molti anni fa (e chiedo scusa per la piccola volgarità): “El temp e el cù, fan quel che voeur lù”.
Cioè al tempo e alla salute non si comanda, con buona pace della licenza poetica utile a fare la rima.










